LE DISMETABOLIE NELLA PRODUTTIVITA’ DELLA BOVINA DA LATTE

Nel cercare di migliorare la redditività derivante dalla produzione di latte bovino due sono le grandi sfide tuttora irrisolte, su cui si cimentano quotidianamente allevatori, buiatri e zootecnici. La prima sfida è la “sindrome della sub-fertilità” e l’altra è quella delle malattie metaboliche, note anche come dismetabolie. In entrambi i casi, si riscontra una ridotta longevità produttiva e, quindi, una minor percentuale di bovine con oltre due lattazioni ossia di animali che hanno “diluito” i costi per giungere al primo parto e avere una migliore efficienza alimentare. Le dismetabolie e la sub-fertilità sono intimamente connesse, rappresentando le une un fattore di rischio per l’altra. Alcune malattie metaboliche compromettono irreversibilmente la qualità dei follicoli, degli ovociti in essi contenuti e la salute dell’utero. Di converso, la fertilità, ritardando il concepimento oltre misura, può essere all’origine di un eccessivo ingrassamento negli allevamenti privi di piani di razionamento specifici per le vacche con molti giorni di lattazione. L’approccio buiatrico classico alle malattie della vacca da latte portava il veterinario a diagnosticare e curare la singola malattia metabolica o la singola patologia ovarica o uterina, considerando insufficientemente il ruolo che hanno i vari fattori di rischio e la profonda concatenazione e consequenzialità tra dismetabolie e infertilità. La buiatria moderna, pur conservando l’inviolabile sequenza individuale anamnesi, diagnosi, terapia e prognosi, ha esteso gli orizzonti dell’anamnesi all’intero effettivo, nel rispetto della “filosofia” della dairy production medicine. L’attenta valutazione dei fattori di rischio individuali e collettivi e delle relazioni tra le singole malattie metaboliche e tra queste e la fisiopatologia della riproduzione è il metodo propedeutico più indicato per dare una “svolta” al problema della scarsa longevità produttiva delle principali razze da latte. Pertanto, è necessario conoscere il reale significato dell’approccio “olistico” e dei fattori di rischio prima di entrare nei dettagli fisiopatologici delle singole malattie metaboliche.

L’approccio “olistico”

La scienza olistica è un paradigma scientifico che enfatizza lo studio di sistemi complessi. Il Santa Fe institute parla di “approccio filosofico”; infatti, le due caratteristiche principali dello stile di ricerca dell’SFI sono l’indirizzo verso un approccio multidisciplinare e l’enfasi sullo studio di problemi che prevedono interazioni complesse tra le loro parti costituenti.

Questa introduzione “filosofica” alle malattie metaboliche ha risvolti applicativi piuttosto pratici. Ogni qualvolta la malattia metabolica viene valutata singolarmente, senza considerare la correlazione esistente tra quella dismetabolia e le altre, si possono ottenere tassi di guarigione individuale interessanti, ma non si riesce a intaccare la prevalenza delle dismetabolie nel loro complesso. Una qualsiasi espressione fenotipica, sia essa una performance produttiva, riproduttiva o sanitaria, è la risultante di un’interazione tra genotipo, ambiente, management, sanità e nutrizione. Queste variabili possono influenzare la morbilità, la mortalità, la prevalenza e il decorso delle malattie. Per meglio comprendere questo concetto si può prendere come esempio la chetosi metabolica. Questa grave dismetabolia ha una componente genetica importante. Innanzi tutto possiede una percentuale di ereditabilità dello 0,11% e la selezione a favore del grasso del latte ne aumenta la morbilità e la prevalenza. Ma anche il management, inteso come rapporto tra allevatore e animali, ha un peso rilevante. Infatti, la mancanza di uno spazio adeguato al riposo e al movimento per le bovine a fine gravidanza e il sovraffollamento sono fattori di rischio non trascurabili. Inoltre, la concentrazione energetica e proteica della razione e l’ingestione hanno effetti di primaria importanza sulla chetosi. Infine, entra in gioco anche la sanità, visto che la prevalenza della chetosi è influenzata dall’eventuale presenza dermatiti digitali, malattie infettive sistemiche o acidosi ruminale subclinica nel periparto. Con questo esempio è evidente che, qualora si voglia prevenire questa malattia così “connessa” al buon funzionamento del sistema immunitario, la produzione di latte e la fertilità, è necessario adottare un approccio solistico, ossia migliorare e risolvere tutte le variabili dell’equazione del fenotipo (vedere figura).

I fattori di rischio

Nella moderna zootecnia da latte, gli investimenti in genetica, ambiente, management, nutrizione (clinica o di base) e prevenzione devono essere attentamente programmati e soprattutto si deve essere in condizione di valutarne per ognuno il ritorno economico (ROI). L’allevamento ideale, ossia quello in cui non esistono fattori di rischio per la produzione, la fertilità e la salute, probabilmente non esiste. Il moderno buiatra deve essere in condizione di suggerire all’allevatore quale sarà esattamente il vantaggio “misurabile” derivante dalla riduzione di uno specifico fattore di rischio. È noto che alimentare le bovine in asciutta con alimenti particolarmente ricchi di sodio, fosforo e potassio aumenta il rischio di incidenza della sindrome ipocalcemica, ben sapendo che non tutte le bovine che assumono una dieta a rischio poi sviluppano questa pericolosa malattia metabolica. Prendere gli adeguati provvedimenti significa acquistare foraggi diversi, magari più costosi, o adottare additivi specifici. In molti casi, ciò rappresenta un costo che, se non garantisce un adeguato ROI, può essere svantaggioso. Fanno eccezione a questa regola “economica” quelle patologie cosiddette “frustranti”, ossia quelle che, a prescindere dal loro impatto economico, l’allevatore non desidera avere.

Ma cosa si intende per fattore di rischio? È una specifica condizione che risulta associata a una malattia e che pertanto si ritiene possa concorrere alla sua patogenesi. Un fattore di rischio, quindi, non è un agente causale, ma un indicatore di probabilità che lo stesso possa associarsi a una determinata condizione clinica. Di conseguenza, la sua assenza non esclude la comparsa della malattia, ma la sua presenza, eventualmente associata ad altri fattori di rischio, ne aumenta fortemente la presenza. Andando ancor più nel dettaglio, è importante conoscere l’odds ratio (OR), uno degli indicatori più utilizzati in epidemiologia per definire il rapporto causa-effetto tra due fattori, come un fattore di rischio e una malattia. Se il valore di OR è uguale a 1 significa che il fattore di rischio è ininfluente sulla comparsa della malattia. Se è maggiore di 1 il fattore di rischio è implicato nella comparsa della malattia, mentre se inferiore a 1 il fattore di rischio è in realtà una difesa contro la malattia.

A titolo di esempio, le vacche che partoriscono nel periodo giugno-luglio hanno un OR di 1,7 di sviluppare una metrite rispetto a quelle che partoriscono tra settembre e novembre; le vacche che esibiscono una ritenzione placentare hanno un OR di ben 6,2 di contrarre una metrite, mentre la chetosi aumenta l’OR a 4,5 per la dislocazione dell’abomaso.

Molto importanti nella prevenzione delle malattie metaboliche sono alcuni metaboliti ematici, come i corpi chetonici (BHBA) e gli acidi grassi non esterificati (NEFA). Entrambi sono altamente correlati con il metabolismo energetico. Il BHBA è un corpo chetonico che, da un lato, indica un flusso eccessivo di acidi grassi (NEFA) al fegato proveniente dai tessuti di deposito e, dall’altro, un’alterazione della capacità del fegato di ossidarli completamente in energia (ATP). I NEFA gli acidi grassi che si liberano nel sangue dai trigliceridi che costituiscono le riserve lipidiche del tessuto adiposo. Questi vengono per lo più mobilizzati quando un calo di insulina segnala a questo tessuto una riduzione della glicemia e, quindi, un possibile bilancio energetico. Sia i NEFA sia il BHBA rappresentano fattori di rischio non solo di alcune malattie metaboliche, come la ritenzione di placenta e la chetosi, ma anche della sindrome della sub-fertilità e di patologie coinvolte nella sindrome stessa. Inoltre, sia i NEFA sia il BHBA hanno un impatto negativo sulla produzione di latte, quantificato dall’OR.

La fisiopatologia delle malattie metaboliche

Le malattie metaboliche si concentrano essenzialmente nella fase di transizione, ossia nelle ultime due settimane di gravidanza e nelle prime settimane di lattazione, in seguito al profondo “riassetto” ormonale e metabolico determinato dalle ultime fasi dello sviluppo fetale, dall’evento parto e dall’inizio della lattazione. Esistono anche malattie metaboliche, come l’acidosi ruminale, sia essa clinica che sub-clinica, che possono comparire in ogni fase della lattazione o dell’asciutta. In più, sono fattori di rischio delle patologie che si concentrano nella fase di transizione eventi che possono verificarsi anche a lunga distanza temporale da questo periodo. Questo è il caso dell’eccessivo ingrassamento negli ultimi mesi di lattazione e dei disordini minerali.

Obesità della vacca da latte

Per semplificare la gestione degli allevamenti di vacche da latte, ancora troppi allevamenti adottano per le vacche negli ultimi mesi di lattazione e ormai in buona percentuale gravide la stessa razione destinata alle vacche più “fresche”. Questa scelta è condizionata anche dalla volontà di evitare che un cambio di gruppo e una razione meno energetica possa ridurre la persistenza della lattazione. Se nelle stalle la maggior parte delle bovine rimangano di nuovo gravide precocemente, i rischi di ingrassamento a fine lattazione sono ridotti. Se invece ciò non avviene, le razioni ad alto contenuto energetico a loro somministrate possono provocare uno stato di ingrassamento eccessivo. Negli allevamenti è ormai diffusa la pratica di indicare il grado di ingrassamento con il Body condition score (BCS). Se la scala adottata è quella di Edmonson (1989), si ritiene ideale un BCS di 3,50 all’ingresso in asciutta e al parto. Questi due punteggi sottintendono che, per il metabolismo, è molto pericoloso arrivare all’asciutta con uno score elevato e che, qualora ciò avvenga, non è consigliabile imporre un dimagrimento, per non vanificare la “mission” dell’asciutta stessa, ossia far “esportare” al fegato i trigliceridi che si sono accumulati durante la fase di bilancio energetico e proteico negativo delle prime settimane di lattazione.

Più una bovina arriva grassa al parto più elevata è la concentrazione di NEFA ematici nelle prime settimane di lattazione. Si è visto che la concentrazione di NEFA, di per sé, rappresenta un OR importante, sia per alcune malattie metaboliche sia per la fertilità e la produzione. Inoltre, gli acidi grassi non esterificati sono un sicuro fattore di rischio per la chetosi e per la lipidosi epatica. Il tessuto adiposo delle bovina ma, più in generale, dei mammiferi, è un vero e proprio organo, dotato di tessuti endocrini in grado di produrre ormoni, come la leptina e l’adiponectina, che partecipano alla “ricognizione metabolica” ipotalamica per valutare lo status energetico e, quindi, modulare la secrezione degli ormoni ipofisari mediante i fattori di rilascio (RH) o di inibizione (IF) ipotalamici.

Inoltre, il tessuto adiposo, durante l’imponente lipomobilizzazione delle prime settimane di lattazione, rilascia ormoni come il progesterone, in grado di inibire una precoce ripresa dell’attività ovarica dopo il parto e citochine proinfiammatorie, come il TNF-α e le interluchine. Queste citochine proinfiammatorie causano un “riassetto” del metabolismo, come se fosse in corso un’infezione da Gram negativi, per le endotossine che essi producono. È noto che le endotossine stimolano un forte rilascio da parte dei monociti e dei macrofagi di citochine che, oltre a indurre febbre e riduzione dell’appetito, bloccano selettivamente la produzione di GnRH ipotalamico e, quindi, di gonadotropine nei tessuti dotati di recettori per l’insulino-resistenza. Pertanto, l’obesità delle bovine al momento del parto è un generico fattore di rischio per malattie metaboliche ad essa direttamente o indirettamente correlate, come l’immunodepressione del periparto, la chetosi, la ritenzione placentare, la dislocazione dell’abomaso e la chetosi. Appare pertanto ineludibile e chiaro che, in una visione olistica della gestione delle malattie metaboliche, il controllo dell’obesità della vacca da latte deve essere la priorità del nutrizionista clinico e del buiatra.

Qualora sia assolutamente necessario, è anche possibile far dimagrire le bovine in asciutta, a patto che questa fase abbia una durata non inferiore a 90 giorni e sotto la “guida” della nutrizione clinica. Farle dimagrire in asciutta significa indurre una lipomobilizzazione mediante un brusco calo dell’insulina. Ciò è possibile riducendo nella razione alimentare l’apporto di amido e, quindi, di acido propionico e, conseguentemente, di glucosio prodotto dal fegato. Inoltre si deve eliminare la possibilità che l’amido possa arrivare all’intestino ed essere assorbito direttamente come glucosio. Tuttavia, si deve assicurare alle cellule epatiche o, meglio, ai loro mitocondri, una certa quota di propinati, per evitare che una parte dei metaboliti degli acidi grassi (acetil-CoA) possano ricombinarsi per formare corpi chetonici.

Molto pericolosa è la riduzione della proteina, ben sapendo che la bovina utilizza gli aminoacidi glucogenetici come fonte energetica. Per esportare i trigliceridi che si accumulano nel fegato (lipidosi epatica) è necessario “confezionare” lipoproteine come le VLDL. Per fare questo, servono alcuni aminoacidi essenziali. Esistono alcuni additivi importanti, riconducibili quasi tutti alla categoria dei “donatori di gruppi metilici”, che interagendo fortemente tra loro consentono una buona disponibilità alla vacca da latte di carnitina (fondamentale per l’ingresso degli acidi grassi nel mitocondrio), colina (essenziale per la sintesi delle apo-lipoproteine) e, quindi, VLDL, betaina e metionina. Quest’ultima svolge il ruolo non solo di prezioso aminoacido essenziale ma anche di insostituibile donatore di gruppi metilici per la sintesi di colina e carnitina. Nello scegliere gli additivi funzionali al “dimagrimento programmato” non si deve dimenticare il ruolo fondamentale degli antinfiammatori, di cui è consentito l’uso per via orale e per tempi lunghi.

I disordini minerali e vitaminici in asciutta

La nutrizione minerale e vitaminica nelle ultime 8 settimane di gravidanza rappresenta un importante fattore causale e di rischio per le malattie metaboliche del periparto, che hanno un impatto negativo sulle performances produttive e sanitarie della successiva lattazione. Relativamente ai macrominerali, intendendo per essi quelli come il calcio, il fosforo, il magnesio, il sodio, il cloro e il potassio, esistono fabbisogni fortemente validati dalla ricerca. È bene ricordare che vengono così classificati perché i loro fabbisogni e la loro presenza nell’organismo è nell’ordine di grammi, quindi di quantità significative. È stato ormai accertato che carenze o eccessi o alterati rapporti tra loro, sia nella razione sia nel sangue circolante, possono avere effetti negativi sulla salute delle bovine. Le cause si possono ricondurre a due condizioni. La prima per imperizia è del nutrizionista, quando include nella razione delle ultime settimane di gravidanza o nel periparto macrominerali in eccesso o ne omette alcuni dai supplementi. Ciò può comprometterne la biodisponibilità, mentre gli eccessi di alcuni possono essere la causa di carenza di altri. Il caso più esemplificativo è quello del fosforo. È ormai noto da diverse decine di anni che la razione ideale per le bovine nelle ultime settimane di gravidanza deve avere un rapporto calcio-fosforo di circa 2:1. Questo rapporto garantisce l’assorbimento intestinale necessario del calcio e assicura una buona disponibilità di fosforo. Se le bovine mangiassero in questa fase solo foraggi di prati stabili, siano essi freschi o conservati, riceverebbero sicuramente una quota di calcio (notoriamente presente maggiormente nelle leguminose) soddisfacente e in buon equilibrio con il fosforo. Nelle aree dove maggiormente si concentra l’allevamento della vacca da latte, la disponibilità di prati stabili è limitata, per cui si preferisce coltivare graminacee come il mais, loiessa e altro, da utilizzare per le bovine in asciutta, sempre che la loro concentrazione di fosforo e potassio non sia eccessiva per le intense “letamazioni e liquamazioni” a cui usualmente i terreni sono sottoposti. Consultando l’ultima edizione del 2001 del Nutrient requirements of dairy cattle”, per i fabbisogni delle vacche in asciutta si consiglia una dieta con una concentrazione di calcio dello 0,44-0,48%% e di fosforo dello 0,22-0,26%, quindi un rapporto tra questi di macrominerali di circa 2:1. Ciò “rende obbligatorio” l’uso di foraggi di graminacee integrati con fonti di amido e proteine, che tendono a non alterare questo rapporto. L’integrazione macrominerale ha lo scopo di aumentare l’apporto di calcio e fosforo per evitare carenze secondarie legate alla grande richiesta del feto e della produzione di colostro. Per imperizie, a volte, l’integrazione minerale somministrata in questa fase è spesso ricca di fosforo, causando uno squilibrio del rapporto Ca:P e, quindi, la sindrome ipocalcemica del periparto, in quanto questo macroelemento inibisce la produzione renale di calcitriolo.

Le ragioni della sopravvalutazione del ruolo positivo di un apporto supplementare di fosforo hanno radici antiche, quando questo macrominerale era fortemente carente nei terreni destinati a produrre foraggi e dove gli apporti di deiezioni animali erano scarse o addirittura nulle. Il secondo motivo è legato all’enorme variabilità della presenza di macrominerali nei foraggi destinati alle bovine a fine gravidanza, per cause geologiche e per motivi legati allo smaltimento delle deiezioni. I liquami, a causa delle “massicce” integrazioni di macrominerali alle bovine in lattazione, dell’alta capacità di assimilazione delle cultivar e dell’ampio impiego di concentrati, sono spesso ricchissimi di macrominerali, che vengono trasferiti nei terreni e, quindi, nelle piante. Attualmente, è quasi impensabile integrare la razione delle vacche in asciutta e delle manze in fase avanzata di gravidanza senza aver opportunamente dosato la concentrazione di tutti i macrominerali, almeno nei foraggi, che rappresentano usualmente non meno dell’85% della razione di questa fase fisiologica. Oggi, esiste una tecnologia detta XRF (fluorescenza ai raggi X), di provenienza mineraria, che consente analisi quantitative per i macrominerali, veloci e relativamente economiche. Utilizzando questa tecnologia analitica è possibile quantificare la concentrazione minerale dei foraggi destinati alle bovine e, quindi, formulare un’integrazione minerale specifica. L’uso delle analisi degli alimenti, spesso inclusi nei software di razionamento o nelle numerose tabelle, provengono spesso dall’estero, ossia realtà molto diverse dalla già variegata realtà italiana.

Il magnesio è un macroelemento spesso carente in alcune area italiane. Dopo il potassio, è tra gli elementi maggiormente presenti nell’organismo (0,05% del peso corporeo). Per il 60-70% si trova nelle ossa e la restante parte nei tessuti molli. Il magnesio presiede funzioni metaboliche molto importanti, essendo richiesto per l’attivazione di sistemi enzimatici come l’ATPasi, le chinasi e le fosfatasi. Inoltre, è coinvolto nella sintesi del DNA, dell’RNA e delle proteine. Questo elemento modula la trasmissione sinaptica dei muscoli scheletrici (eccitazione-contrazione), che risentono chiaramente di una sua carenza. Oltre che a carenze primarie (scarso apporto con gli alimenti), esistono molti fattori che condizionano l’assorbimento di magnesio. Un aumento della concentrazione di potassio nella dieta dall’1% al 2% riduce la biodisponibilità del magnesio dal 25% al 15%. Questa condizione è facilmente verificabile quando in asciutta vengono impiegati foraggi ricchi di potassio.

Il metabolismo del magnesio è intimamente legato al metabolismo del calcio, soprattutto nell’immediato post partum. La mobilizzazione del calcio dalle ossa, che ne rappresentano il più importante serbatoio, è regolata dal paratormone (PTH), che viene prodotto quando il calcio nel sangue scende sotto una certa soglia. Il PHT, in caso di bisogno, stimola anche il riassorbimento del calcio dai tubuli renali e la sintesi della 1,25-diidrossivitamina D a partire dalla vitamina D, assunta con la dieta. In caso di carenza di magnesio, viene rallentata la secrezione di PTH e la sua abilità di aderire ai recettori, in quanto componente fondamentale dell’adenilato ciclasi e della fosfolipasi C.

Questo meccanismo spiega come alcune ipocalcemie, soprattutto nel periparto, non traggano grandi benefici da terapie esclusivamente a base di calcio e come la corretta integrazione di magnesio in asciutta aiuti a prevenire completamente questa grave dismetabolia. In accordo con quanto pubblicato da J.J. Kaneco in “Clinical biochemistry of domestics animals”, la concentrazione normale di magnesio nel sangue è pari a 1,8-2,3 mg/dl o di 0,75-1,0 mmol/l. Una presenza di soli 0,65 mmol/l, nel periparto, aumenta la suscettibilità della vacche da latte alle ipocalcemie e al collasso. Segni clinici dell’ipomagnesiemia si osservano già quando la concentrazione di magnesio nel fluido extracellulare è inferiore a 1,2 mg/dl (0,7 mmol/l). L’ipomagnesia è diagnosticabile quando appunto il magnesio nel sangue è inferiore a 8 mg/dl. La forma subclinica è caratterizzata da valori pari a 0,97-1.8 mg/dl, mentre la forma clinica da valori inferiori a 0,97 mg/dl o 0,4 mmol/l.

L’integrazione macrominerale nelle ultime 8 settimane di gravidanza è estremamente complessa, in quanto eccessi o carenze o alterati rapporti tra i macrominerali possono essere primariamente causa della sindrome ipocalcemica e/o ipomagnesiemica del periparto. Questa grave malattia metabolica può avere il decorso clinico classico del collasso puerperale o della tetania ipomagnesiemica. Ben più grave è invece il decorso clinico negli ultimi giorni di gravidanza e nel puerperio. All’inizio della lattazione si riduce l’abilità della bovina di mantenere normale la calcemia, anche perché sia il colostro sia il latte sono molto ricchi di calcio. Durante il picco di lattazione possono essere eliminati 80 grammi di calcio, ossia l’intero pool plasmatico viene trasferito nel latte 20-30 volte al giorno. Nelle prime 6-8 settimane di lattazione, la bovina tende a perdere il 13% del calcio contenuto nelle ossa. Al parto, la calcemia raggiunge spesso un nadir di 6 mg/dl. Il vero fattore eziologico della sindrome ipocalcemica si instaura quando, calando il calcio ionizzato extracellulare, cala quello intracellulare.

Quando la calcemia scende al di sotto di 8,6 mg/dl aumenta il cortisolo e si osserva una riduzione dell’attività fagocitaria dei neutrofili. Ciò aumenta il rischio di metrite che, sebbene non sia una vera e propria malattia metabolica, viene notevolmente condizionata dagli assetti metabolici in termini di prevalenza. Con calcemie così ridotte si instaura un’alterazione della contrattilità della muscolatura liscia e, quindi, un rischio di infezione mammaria, dislocazione dell’abomaso e ridotta ingestione.

L’immunodepressione del periparto è un status fisiologico, che in molti casi può trasformarsi in patologico. Questa malattia metabolica è il principale fattore eziologico della ritenzione di placenta e fattore di rischio per le infezioni mammarie e la metrite puerperale. Quasi sempre, la sindrome ipocalcemica causa una riduzione di latte. La riduzione della capacità di ingestione nelle bovine ipocalcemiche aumenta significativamente il rischio di chetosi. Esistono due modi per prevenire le alterazioni dei macrominerali a fine gravidanza. Il primo è l’uso “prudente” di un sistema di calcolo denominato DCAD. Singer (1980) e Castable (1990) constatarono che l’acidosi metabolica indotta nel preparto da cloro e zolfo aumenta la sensibilità renale al PTH e, quindi, una maggiore produzione di calcitriolo (1,125- (OH2D3) l’ormone che aumenta la disponibilità ematica di calcio. Qualora venga diagnosticata la sindrome ipocalcemica, un modo per prevenirla è equilibrare il rapporto tra cationi (sodio e potassio) e anioni (cloro e zolfo) della dieta utilizzando l’equazione:

DCAD (meq/100 grammi di sostanza secca)

= [(% Na/0,023) + (% K/0,039)]

– [(% Cl/0,0355) + (% S/0,016)]

In caso appunto di ipocalcemie, si aumenta la percentuale di cloro e zolfo della razione, aggiungendo solfati e cloruri, in modo che il DCAD si riduca verso la negatività, avendo comunque cura che l’inserimento di queste molecole nella dieta della preparazione al parto o dell’intera asciutta non induca cali di ingestione. Il secondo modo, più vicino alla cultura medica del buiatra, è dosare i macroelementi nel sangue ricorrendo all’ematochimica clinica e correggere con la dieta gli eventuali squilibri.

Nelle ultime settimane di gravidanza sono importanti anche le carenze primarie e secondarie di microelementi e vitamine coinvolti nei meccanismi di difesa contro gli stress ossidativi, ossia l’accumulo nei tessuti di molecole ossidanti (ROS). Durante il normale metabolismo (ossidativo) delle cellule vengono prodotte molecole ad azione ossidante, denominate ROS (molecole ossigeno reattive), come il superossido, il radicale idrossilico e il perossido di idrogeno. Parte di queste molecole sono prodotte anche dalle cellule del sistema immunitario (neutrofili e macrofagi) quando devono distruggere per “respiratory burst” l’antigene fagocitato. Per diverse ragioni, queste molecole si possono accumulare nei tessuti, danneggiandoli gravemente, a meno che l’organismo non abbia a disposizione una quantità sufficiente di molecole ad azione antiossidante (assunte con la dieta o accumulate nei tessuti). Queste molecole possono proteggere le cellule direttamente donando elettroni (vitamina E e vitamina A) oppure indirettamente mediante determinati sistemi enzimatici, come la superossidodismutasi (SOD, dipendente da rame, zinco e manganese) o le catalasi (dipendenti da ferro e manganese) e la glutatione perossidasi (GPx, dipendente dal selenio). Lo stress ossidativo, nella vacca da latte, è causa e fattore di rischio di ritenzione placentare, immunodepressione del periparto ed edema mammario patologico (unitamente agli eccessi di sodio e potassio) e, in generale, gioca un ruolo nel decorso delle malattie infettive locali (mastiti) e sistemiche.

Conclusioni

La selezione genetica finalizzata all’aumento della produzione di latte, grasso e proteina induce assetti metabolici che predispongono le bovine a maggiori rischi di alterazioni del metabolismo. Le fasi più delicate sono le ultime settimane di gravidanza e le prime di lattazione. La profonda conoscenza della fisiologia della vacca e dei meccanismi omeostatici e omeoressici da lei adottati permette di trovare le migliori soluzioni per prevenire le malattie metaboliche e, indirettamente, consentire una migliore produzione e una migliore longevità produttiva.

Fonte: La Settimana Veterinaria